Giacometti a Basilea

“Sappiamo che Giacometti è un artista difficile da capire poiché è difficile capire la purezza attraverso l’impurità, capire il vuoto simile a quello del misticismo attraverso il pieno della materia nella scultura, capire il suo amore per l’Essere attraverso quella violenza sull’essere, quella riduzione e corrosione dell’essere, che è la sua arte”. Aveva ragione Roberto Tassi Alberto Giacometti, scultore di nascita svizzera (1901-1966), è difficile da capire, occorre assecondarlo per andare oltre lo stereotipo degli “uomini stretti e lunghi” che lo hanno reso celebre. E il dramma del rapporto tra pieno e vuoto, tra la materia e il “togliere” dello scultore è proprio il centro della grandezza di Giacometti, capace, con la sua opera, di mettere in figura il divino equilibrio tra la corrosione della vita e l’irriducibilità della grandezza umana. Un equilibrio che inseguì tutta la vita e che fu una ricerca instancabile e straordinaria: «Era un incrocio tra un monaco e un montanaro. Aveva una voce sonora e un forte accento italiano: la valle di Borgonovo, dov’è nato, è vicina alla frontiera. Aveva conservato il calore e la vivacità italiani. Lavorava in un atelier molto povero, grigio, scuro; tutta la sua vita era concentrata sul lavoro, unicamente sul lavoro… Molto presto si è creata la leggenda dell’artista insoddisfatto e distruttivo. Ricominciava daccapo senza tregua e non sembrava mai contento di quello che aveva fatto; in effetti ha distrutto molte opere… non per disfattismo ma perché questo corrispondeva al suo modo di creare, alla volontà di trovare la verità pur sapendo che non l’avrebbe mai raggiunta…». L’autore di questo brano poneil tema centrale dell’inesausta ricerca di Giacometti, una ricerca tanto implacabile ed onesta della verità da far saltare tutti i presunti equilibri tra grande e piccolo: l’uomo conserva la sua grandezza nel piccolissimo e, allo stesso modo, si espone alla corrosione della vita nella fragilità del gigante. A centrare così il punto dell’opera di Giacometti è un autore intelligente e lucido, al punto di lasciar trasparire tutto il proprio desiderio di verità, proprio mentre s’impegna a negare che esista la possibilità di raggiungerla. L’autore non è un critico, ma il mercante Ernst Beyeler. Beyeler conobbe personalmente l’artista e, nella sua straordinaria vita di mercante, ha visto passare tra le sue mani quasi trecento opere di Giacometti. Fu Beyeler ad acquistare i novanta pezzi del più grande collezionista dello scultore, l’americano G. David Thompson, permettendo alla Svizzera di riportare a casa un nucleo significativo del suo artista, per il quale fu costituita una Fondazione ad hoc che affidò tre quarti delle opere alla Kunsthaus di Zurigo, quasi un quarto al Kunstmuseum di Basilea e qualche pezzo a Winthertur.

Si può ben capire, allora, quanta attesa ci fosse per la mostra monografica che la Fondazione Beyeler ha deciso di dedicare allo scultore grigionese. E le attese di grandi capolavori, di una scelta esaustiva non è stata certo delusa. Pensate al vostro Giacometti preferito, andate a Basilea (fino all’11 ottobre) e scoprirete che… c’è. La selezione, come sempre molto accurata, ha il sapore della rimpatriata o, meglio, del ritrovarsi tutti “al paese”, per quell’occasione che non si può mancare, quasi a saldare un debito d’affetto. Con Beyler naturalmente. Con la consueta intelligenza e completezza non viene trascurato il contesto artistico famigliare nel quale si formò il giovane Alberto e, in gran numero e qualità, vengono presentati i dipinti del padre Giovanni e del di lui secondo cugino Augusto, in un’esplosione di colori grigionesi che, come un bel mazzo di fiori di campo, sembrano salutare la partenza di Alberto, destinato a ben altri grigiori. Non manca una grande sala dedicata al periodo surrealista di Giacometti, quando, lasciata Stampa e la Svizzera e approdato a Parigi, dopo aver lavorato nella bottega di Antoine Bourdelle, allievo di Rodin, conobbe André Breton e, con lui, il primo successo. Di fianco, una piccola sala è dedicata ai mobili artistici del fratello di Alberto, Diego, con il quale condivise tutta la vita lo studio, usandolo come modello di alcuni suo capolavori, come dimostra il celebre busto qui riprodotto; i mobili di Diego sono messi a confronto con alcuni singolari oggetti d’arredamento, vasi e lampade, che senza cartellino non avremmo mai attribuito allo stesso Alberto. La mostra procede con un bellissimo colpo di teatro, perfetto perché finalizzato alla comprensione dell’opera dell’artista e di quel passaggio concettuale che fece fare a Giacometti il salto verso la grandezza. La stanza (qui in basso) è completamente vuota e al centro, su un enorme parallelepipedo, è posta una piccolissima scultura, un piccolo uomo stilizzato su un basamento, in proporzione, imponente. 8 cm di altezza in tutto persi in una stanza enorme. Una sala veramente indimenticabile perché rappresenta il momento (1941) in cui Giacometti vive il dramma di dedicarsi con tanta foga al raggiungimento della sola essenza umana da far quasi scomparire l’opera. Per salvare le sue opere Giacometti anziché farle rimpicciolire le assottiglia: il mutare le proporzioni della realtà fu l’unico modo a lui possibile per non diminuirne la veridicità. Le sale che seguono sono tre grandi atelier d’artista, in cui le opere affollano le stanze di tali e tanti capolavori da richiedere ognuno una trattazione a parte. Il visitatore non sa da che parte girarsi, tutto bellissimo, tutto grandissimo, stupendamente illuminato… un’abbuffata che, dobbiamo ammetterlo, rischia di essere il punto debole della pur imperdibile mostra. Nell’esposizione, infatti, abbiamo trovato la completezza del percorso reso con pezzi superbi a cui ci ha abituato l’intelligenza ed esperienza di Beyeler. Ma ci aspettavamo anche quella poesia visiva delle installazioni delle opere di Giacometti a cui lo stesso gallerista ci aveva abituato, grazie ad alcuni allestimenti delle stesse, che sono tra i quattro ocinque ricordi figurativi incancellabili della nostra vita. E non mi riferisco solo alla commozione e il turbamento fattoci provare da Ernst accostando, nella sua Fondazione, Giacometti e le tele di Rothko e Newman ma alle scelte allestitive della stessa collezione permanente: «Ci tenevo inoltre a rendere un omaggio speciale a Giacometti.

Avremmo potuto esporre un numero maggiore di sue opere, ma mi sembrava importante, piuttosto, creare un luogo spirituale, concentrato su un tema centrale, come il suo progetto per la Chase Manhattan Plaza di New York, che gli era stato commissionato da David Rockefeller e dall’architetto Bunshaft (…) Mi aveva allora confidato di aver lavorato così tanto per realizzare donne sempre più grandi che avrebbe potuto eseguirne di qualsiasi taglia, perché ormai le aveva nelle stesse mani. Sfortunatamente morì alcuni mesi dopo aver fatto ritorno dall’America e il progetto non fu mai realizzato. Questo spirito si conserva, spero, nella sala Giacometti alla Fondazione (qui riprodotta). Abbiamo scelto il tema dell’uomo che cammina verso la meta delle donne ingrandite; il busto sulla destra evoca simbolicamente l’artista che guarda. Credo che siamo riusciti a dar vita a una sala in movimento e, attraverso l’uomo che cammina verso le donne, a un tema eterno». Cosa è successo Ernst? Perché alla poesia è subentrata la bulimia? Non c’era modo, rinunciando a qualche pezzo, con qualche separazione ottica tra un’opera e l’altra, di creare qualche luogo più raccolto che aiutasse lo spettatore ad un rapporto diretto con l’opera? La fatica che sarà costata riunire per la prima volta le nove “Donne” della Biennale del ’56 non poteva essere premiata da un’ambientazione che non fosse l’androne del bookshop, nel quale il bellissimo Newman diventa tappezzeria? Non c’era modo di essere fino in fondo te stesso, moltiplicando e non rinunciando a quelle superbe stanze dell’anima che hai lavorato tutta la vita per regalarci?

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