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Camillo Procaccini a Rancate

Un bolognese a Milano; per cominciare. Il protagonista è Camillo Procaccini (1561-1629), pittore nato a Bologna e trasferitosi a Milano nel 1587, dove morì a 68 anni, dopo aver trovato la massima fama e fortuna. Da non confondere con l’estroso fratello Giulio Cesare, Camillo fu l’artefice dell’affermazione della pittura tridentina nel territorio, promossa dai due Borromeo. Moltissime le pale d’altare uscite dalla sua bottega e altrettante quelle che diffusero in tutta la Lombardia e il Canton Ticino i suoi moduli compositivi. Uno stile rassicurante e pacificato, fatto di pale facilmente intelleggibili, dallo stile aggraziato ma sobrio che spopolarono da nord a sud.

Si tratta della produzione più nota e quantitativamente predominante di Camillo, che ne copre quasi tutta l’attività dal 1600 in avanti, e, anche per i sempre più massicci interventi della bottega, caratterizzata da una certa stanchezza e ripetitività. Ma la sapiente regia della mostra decide di raccontare l’altro Procaccini, accennando alla sua formazione bolognese e soffermandosi su quei quindici anni tra il suo arrivo a Milano e l’inizio della produzione “seriale” del nuovo secolo. È il periodo di massima sperimentazione dell’artista, in cui Camillo rivela tutta la sua capacità inventiva sulle opere di grande formato, ma anche nelle piccole tele e nelle fortunatissime incisioni. La mostra gioca sull’alternanza tra grandi pale d’altare, molte delle quali restaurate ad hoc, e bellissimi disegni: non solo fogli preparatori ai dipinti, ma opere finite per raffinati collezionisti, nei quali Camillo poté mettere alla prova la propria abilità fisiognomica. Ad accogliere il visitatore è posta una preziosa tela del periodo bolognese: La creazione di Eva, bozzetto preparatorio per il grande dipinto realizzato nella Chiesa di San Prospero a Bologna. È solo il primo dei molti inediti presentati e introduce alla sala del pian terreno, dominata dalle tre grandi tele del ciclo sulla Santa Croce, provenienti dall’omonima chiesa di Riva SanVitale ed eseguite all’inizio degli anni ’90. La miccia innescata dal bozzetto, così palpitante di vita e natura, esplode, appena voltato l’angolo, nel trionfo delle grandi tele di Riva: tra i maggiori esiti della capacità compositiva appresa a Bologna. Nel patos di Sant’Agostino, atterrito dalla visione della Croce, nell’energia circense del cavallo impennato che cerca l’attenzione del visitatore, o nel passaggio disincantato della comparse militari sul fondo, Procaccini si dimostra capace di traghettare il Manierismo di fine Cinquecento verso le mani tese del Barocco di là da venire.

Il ballatoio che si affaccia sulla sala, permette di ammirare le grandi pale sulla parete e, nel contempo, di esporre in un ambiente raccolto le opere di piccolo formato e grande preziosità che fanno da snodo conoscitivo al salone del terzo piano. È qui uno dei più importanti meriti della mostra, che dimostra quanto un confronto puntuale tra le opere dell’artista che si vuole illustrare e i suoi circonvicini illumini, in modo altrimenti impossibile, il pittore stesso. Ricordiamo per esempio, sulle stesse pareti, i confronti indimenticabili tra le teste femminili di Discepoli e Cairo; ora è la volta del paragone ravvicinato tra le bellissime incisioni di Procaccini e due straordinari oli su rame di Cerano. Il susseguirsi delle Sacre Famiglie e Fughe in Egitto dei due artisti rendono palpabile il debito compositivo di Cerano verso il più anziano Procaccini e l’inesorabile balzo in avanti veridico e sintetico del giovane Cerano verso Camillo. Una sala che racconta, come meglio non si potrebbe, un’infinità d’aspetti della storia dell’arte: dall’importanza della diffusione delle stampe, alla varietà dei modelli e delle tecniche, fino al passaggio tutto lombardo tra manierismo e naturalismo… Una sala che, artefice la fragranza commovente delle opere in punta di pennello del Cerano, certamente terremo a mente come le cose più care.

Saliti al terzo piano, la grande sala rende giustizia a Procaccini, mostrando il meglio ma suggerendone con onestà anche i limiti. Dalle pale d’altare del primo periodo bolognese, fino alla grande produzione milanese, il visitatore potrà comprendere la capacità scenografica dell’artista, gustare la potenza degli incredibili disegni e la fortuna di un tema come il San Giorgio e il drago, del quale sono riunite in mostra moltissime della varianti autografe. L’intenditore si potrà fermare a ragionare sui moltissimi quadri ripuliti per l’occasione e, per questo, cogliere meglio i rapporti di debito e credito. Nel Martirio di Sant’Agnese eseguito per il Duomo di Milano e oggi in collezione Borromeo, solo per fare un esempio, l’incredibile esplosione cromatica della brace e delle fiamme non potrà non far tornare alla mente gli analoghi dettagli della pala di Cerano in San Vittore aVarese, commentando la quale, non si potrà più fare solo il nome di Giulio Cesare. Tra i bellissimi inediti, infine, una parola meritano il sensuale Sacrificio di Isacco, da poco approdato alla pinacoteca diVarallo e l’Ecce homo in collezione Koelliker, che ebbi modo di vedere in casa del collezionista appena arrivato e coperto da uno strato di sporco che non avrebbe fatto sospettare il trionfo cromatico oggi apprezzabile. È proprio con lo snodo tra quest’opera del 1590 circa, una Flagellazione di circa trent’anni dopo e l’intermedia Flagellazione di Cerano del 1600 circa, che si chiude la mostra. È qui che si buttano giù tutte e carte della lunga e straordinaria partita giocata: la freschezza del giovane bolognese che guarda con un occhio a Passarotti, con l’altro a Barocci e Tibaldi, senza paura di sperimentare, si confronta impietosamente con lo spegnimento d’ogni energia innovativa in una confusa opera tarda, probabilmente solo di bottega… insieme, si affacciano all’inarrestabile forza del Cerano: altri ritmi, altre spregiudicatezze per un pittore che ha ormai preso in mano il testimone e, liberata la scena, si mostra capace di sfarinare i colori, declinandoli in una grandiosità luccicante e livida che parla di vita.

Con un intervento di Maria Foletti.

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