Tamara De Lempicka a Milano

Quello che luccica in Tamara de Lempicka. Il nome della pittrice, in mostra a Palazzo Reale di Milano in questi giorni, è un po’ difficile da pronunciare e forse anche da ricordare, esattamente l’opposto dei suoi quadri, che molti dei lettori avranno riconosciuto come qualcosa di noto, già visto. Eh sì, la grandezza della De Lempicka è stata proprio quella di trovare non solo un proprio stile facilmente riconoscibile, ma di dipingere tele talmente “fashion”, “glamour”, alla moda insomma, da rimanere ben in mente a chi le incontra, spesso prima che in mostra, in una campagna pubblicitaria, sulla copertina di un romanzo o attraverso citazioni, più o meno esplicite, del cinema e della moda dei nostri giorni. I quadri di Tamara hanno stravinto in “riproducibilità” perché vivono di un gusto intramontabile: quello di una bella vita di gran classe, che da “ultima moda” passa subito a “vintage”, ossia da recuperare a piene mani perché garanzia di “cool”, come il tubino nero della Hepburn, o come Coco Chanel, quella dei tailleur e del profumo N° 5: garanzia di classe. Indiscutibile. Punto.

Ad affollare i quadri della De Lempicka sono bellissime donne dalla forte personalità e ancor più grande carica erotica, espressione di passioni senza freno né pudori di genere, cresciute a grandi feste, belle macchine e vestiti… Dipinti saturati da abiti monocromi, luci algide, superfici metalliche e consistenze volumetriche sode ma tesissime. Il fiore, emblematico e più rappresentato, non può che essere la calla bianca: allungatasi anch’essa fino all’inverosimile per spegnersi nella carnosità trattenuta di un bianco che non ha mai creduto alla purezza. Un mondo, quello raccontato e saccheggiato in questi quadri, che è un tutt’uno con la vita della pittrice polacca, cresciuta a San Pietroburgo e peregrinata per una vita tra l’Europa e l’America, acclamata e strapagata dall’“upper class” che conta, bella anche lei come Greta Garbo, icona del proprio tempo, eroina del Decò, amante dell’arte italiana e amica di D’Annunzio, contessa dagli amori burrascosi e discussi, molte case e altrettante stanze d’albergo, paladina della modernità, di tutto ciò che rappresenta il nuovo. Tamara trova insomma una sorprendente corrispondenza con le cinque parole chiave che ancor oggi la casa di moda Chanel usa per definire la propria fondatrice e l’attuale linea creativa: audace, perfezionista, unica, passionale e visionaria, nel senso di precorritrice dei tempi.

La retrospettiva che Milano le dedica è un’occasione da non perdere per comprendere la complessità e importanza del fenomeno Tamara, in un bellissimo allestimento che, saggiamente, gioca sul personaggio con gigantografie di celebri ritratti fotografici. Non mancano le opere più importanti tra gli anni ’20 e ’30, precedute dalla ricostruzione della prima personale dell’artista, allestita proprio a Milano nel 1925, alla galleria del Conte Emanuele Castelbarco, del quale viene tratteggiata la personalità, e rappresentati i legami con l’arte italiana di quegli anni.

Sorprende una fase poco nota della pittrice ancora da indagare: mentre il suo mondo cominciava ad incrinarsi, alla metà degli anni Trenta, Tamara trovò conforto in una fede spesso derisa dalla critica, perchè creduta non autentica. Risalgono a quegli anni La Vierge bleue, qualche immagine di Santa e un quadro a cui tenne moltissimo tutta la vita: il primissimo piano de La Mère supérieure, una monaca che l’accolse per qualche tempo in un convento vicino a Parma, qui ritratta in lacrime perché, come ricordava l’artista, le sembrava capace di portare sul volto la tristezza di tutto il mondo.

Nell’ultima fase della sua produzione, esito di un periodo di crisi depressiva, la qualità delle opere è veramente bassissima, la bellezza vacua e perversa che attrae nei suoi celebri quadri si è persa, un iperrealismo stanco dà vita a nature morte e volti allucinati, su tutto domina un sentore di polvere, polvere fino al soffocamento… Una tristezza che sembra trascinare nel baratro tutti gli splendori del passato: dalla forza erculea delle sue eroine, alla speranza incrollabile nelle “magnifiche sorti”. Una fine penitenziale in cui leggere una dura lezione, infertaci dalla curatrice Gioia Mori, certamente una delle più importanti studiose dell’artista, più per dovere di cronaca che per sadismo, e che alla stessa Mori, complice un’affezionata e partecipe tenerezza, fa apparire Tamara come un Petit Prince, protagonista del suo pianeta mondano tutto sommato per brevi anni e destinato, in un mondo in crisi alle soglie della guerra, a inabissarsi nella propria malinconia. Tornando allora alle tele del suo periodo d’oro, ci chiediamo se sia questo il più nascosto eppur vero testamento della de Lempicka: una malinconia sempre presente nelle sue opere che ci avverte, dal di dentro dell’immagine imperitura dell’apparire, che l’incompiutezza della vita è più reale di ogni immagine di felicità.

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