Picasso a Madrid 2. Pazzi per Guernica

Un punto di non ritorno. Ci sono opere d’arte talmente impregnate dalla propria fama, talmente conosciute all’occhio di ognuno di noi che rischiamo, paradossalmente, di essere ormai impossibilitati a guardarle veramente. Sembra assurdo ma si tratta dello stesso processo per cui non badiamo più alle pareti di casa nostra. Non fosse per un chiodo che cede al tempo o per l’ormai improcrastinabile imbiancatura della primavera scorsa, da quanto tempo non vi fermate a guardare quel quadro o stampa che avete appeso sopra il divano in salotto? Eppure l’avete scelto con cura, e sistemato compiaciuti “in bolla”. Tempo una settimana e la vita va decisamente avanti senza di lui. Dimenticato. Ecco, con i grandi capolavori della storia dell’arte si corre lo stesso rischio: li abbiamo visti su ogni libro di testo, giornale, pubblicità, su di loro si è scritto tutto, inventato di più, impossibile (se non per snobismo o stucchevole anticonformismo) parlarne male e, forse, ancor più impossibile parlarne senza sciorinare banalità. Nel caso di Guernica, il quadro che raffigura il bombardamento dell’omonima città spagnola, questo rischio è amplificato dall’essere stato dipinto (1937) dal più grande e celebre pittore del ’900, Pablo Picasso, e dal rappresentare, a un livello sublime e direi definitivo, non solo lo strazio della guerra, di ogni guerra, ma il dolore dell’uomo in quanto tale, del quale è simbolo universale. Senza contare le distorsioni che possiamo avere nel ricordarcelo, visto che, a causa delle sue dimensioni (349,3 x 776,6 cm), viene riprodotto tagliato o, pur essendo stato dipinto nelle infinite gradazioni del grigio, miracolosamente tendenti all’azzurro, al verde o al marrone, pubblicato in un piatto e mortificante bianco e nero, spesso confuso con l’originale monocromo. Ecco le premesse necessarie, o almeno così credevo, per oltrepassare la soglia del Museo Reina Sofía dov’è conservato Guernica, in questi giorni presentato in una mostra che celebra i 25 anni dal suo arrivo in Spagna dal MoMA di New York, dov’era custodito in attesa del ritorno della democrazia, senza la quale – per volontà dello stesso Picasso – il dipinto non poteva atterrare sul suolo iberico a cui era destinato. Il visitatore è aiutato, come meglio non si potrebbe, dall’esposizione di tutti i disegni preparatori del dipinto, segno di alcuni mesi d’instancabile lavorazione che creano un’amplificata Via Crucis verso il capolavoro. Al culmine dell’esposizione, collegata a quella al Prado di cui abbiamo dato conto due settimane fa (cfr. l’inserto Cultura del 2 settembre) è messo in scena un centro nevralgico della storia della pittura: è la sala mozzafiato che fronteggia Guernica, allestita con la Fucilazione del 3 maggio di Goya (1814), la Fucilazione dell’imperatore Massimiliano (1868) di Manet (nella variante più riuscita di Mannheim) e il Massacro in Corea, dipinto dallo stesso Picasso nel 1951. Guardare in un colpo d’occhio questi tre quadri cresciuti uno sull’adorazione e consumazione dell’altro, sentire alle proprie spalle la presenza inquietante e conturbante di Guernica è una di quelle esperienze da conservare con pudore nella memoria più intima e, nello stesso tempo, da cercar di magnificare con le parole di cui si dispone.

In exitu Guernica. Al centro della storia, al centro della vita, si sta di fronte allo strazio infinito, raffigurato in tutte le sue possibili declinazioni, e dominano silenzio e commozione: non solo per partecipazione al dolore altrui, nel quale risuona inesorabile il proprio, ma per la grandezza di un pittore, uomo anch’egli, a cui sembra sia stato concesso il dono di assottigliare fino alla trasparenza ogni possibile distanza tra ciò che si vorrebbe fare e ciò che si riesce a fare.

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