Il medico nell’arte

Ieri Veronica ha perso il suo Bambino. Due ore prima mi aveva detto, commossa, che aspettava il suo quarto figlio, inatteso, non previsto e già amato. Poi una perdita, un presentimento, lacrime e  un messaggino… Lilia, la ginecologa, l’ha visitata alle 21: aborto spontaneo, il responso. Mi ha sempre impressionato che i medici si trovano spessissimo ai crocevia della nostra vita, nei posti più determinanti dell’esistenza, dal concepimento alla morte, in questo caso poi, tanto vicini l’uno all’altra, da lasciarti senza fiato. Sono momenti che hanno facce e nomi precisi: il tuo, dei tuoi cari e quelli di un medico. Si descrive così un triangolo nel quale ognuno gioca un ruolo determinante.

L’arte, dal canto suo, parla della vita, nasce dalla vita e per la vita. Non stupisce quindi che la storia della pittura sia ricchissima d’immagini che affrontano questi momenti fondamentali dell’esistenza: la sofferenza, la malattia e la medicina, che cerca, come sa e come può, di rispondere ai nostri bisogni.

Non ho mai amato le mostre iconografiche, che analizzano un tema nel suo sviluppo artistico nei secoli: L’Annunciazione nel Medioevo, Il cibo nella pittura occidentale fino a Il gatto nell’arte! Ero quindi scettico nell’avvicinarmi a questa mostra, ma ho dovuto ricredermi. Sfogliando il catalogo e vedendo i pannelli dell’esposizione Curare e Guarire, in queste settimane esposta al Civico di Lugano, nella prima delle sue tre tappe ticinesi, si capisce che questa volta è diverso e che i curatori non hanno scherzato affatto: Giorgio Bordin non è solo un medico con il pallino dell’arte che ha chiesto una mano all’amica Laura Polo D’Ambrosio, insegnante di Liceo, per farci vedere una collazione di bei quadri più o meno truculenti o rassicuranti. Divisa per temi, la mostra affronta con pudore ed estrema precisione i luoghi fondamentali della malattia, permettendoci di seguire l’evoluzione della medicina che l’arte riflette, ma soprattutto, la straordinaria unione d’intelletti e passioni che scattano quando un artista si trova a rappresentare ciò che non gli permette di barare, messo con le spalle al muro dalla raffigurazione di situazioni cruciali e ineliminabili. Tantissimi gli artisti rappresentati, da Beato Angelico a Munch, da Cerano a Van Gogh, tutti intenti a fare i conti con la drammatica constatazione della caducità dell’uomo, che anela all’eternità ma è debole fino ad ammalarsi e morire. Sono loro a dare il volto ai temi della povertà, della malattia psichica, dei tentativi di cura, dell’assistenza e del progresso scientifico, che rischia oggi di saltare il vero bisogno del paziente.

Tra i tanti passaggi esposti, strugge, sempre e comunque, l’immagine di Van Gogh, consapevole dei suoi disturbi psichici, ammaccato anche fisicamente dopo il taglio autoinfertosi all’orecchio, eppure ancora intento a pensare al Giappone, ai suoi colori, spremuti per ridarci tutto di sé, preso totalmente dal suo lavoro, occupato ad amare l’arte e, in essa, la vita.

Sorprende, infine, l’insistenza della pittura sul tema dei bambini malati: creature fatte per la vita, per essere incontenibili e, invece, legate inerti a un letto di fronte all’impotenza dei genitori. Un tema che permette di cogliere quello che a me sembra il punto cruciale della mostra. Il quadro raffigurato al centro è stato assunto a manifesto della medicina in Inghilterra alla fine dell’Ottocento. Un padre, nell’ombra si erge affranto ma “in piedi”, la madre, dopo essersi consumata le mani per le preghiere si è ormai accasciata sul tavolo in lacrime, la bimba, su un letto di stracci, retto da sedie diverse tra loro e raccattate chissà dove, è ormai tra il sonno terrestre e quello eterno… Quasi al centro c’è anche lui: il medico, il protagonista. Ormai non gli rimane più niente da tentare, eppure non se ne va. Ecco il punto: rimane lì, perché esserci non è come andarsene, perché non basta fare tutto il possibile: un paziente e la sua famiglia chiedono a lui la cosa più grande: starci con tutta la propria umanità, condividere con loro il limite della vita e la grandezza di ciò che non si può comprendere. Perché, come ricorda la mostra, non si cura una malattia ma un paziente, ammirandone e difendendone non solo la dignità, ma la libertà di interrogarsi sul senso grande del vivere e sulle ragioni della speranza.

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