Tutto Matisse alla Beyeler

Verso una purezza che tenga lontana la notte. La notorietà di Henri Matisse è legata alla grandiosità con cui l’artista ha usato il colore e la gioia irrefrenabile con la quale, in ogni suo dipinto, ha premuto l’acceleratore sulla vitalità, estasiando ed eccitando allo stesso tempo, con esiti dall’immediata piacevolezza e dirompente modernità. La grande mostra che la Fondazione Beyeler di Basilea gli dedica fino al 23 luglio è un’antologica che abbraccia tutta la produzione dell’artista e che, grazie a prestiti veramente straordinari, illumina con generosità ogni fase della sua produzione. Com’è salutare quest’occasione per tornare a Matisse, andando oltre la naturale fascinazione cromatica, e scoprendo sessant’anni d’inesausta sperimentazione pittorica e scultorea, sempre all’inseguimento di linea e colore, delle forme che ne conseguono, del rapporto tra soggetto e spazio e tra interno e esterno, in una continua libertà e spregiudicatezza. Le prime opere di Matisse, scalate nell’ultimo decennio dell’Ottocento, registrano la pittura dell’epoca, dimostrando una sorta di sintesi aggiornata del Realismo, uscito vincitore su un secolo di Accademia. In un’opera come Intérieur au chapeau haut-de-forme (1896) Matisse entra a gamba tesa nelle sperimentazioni dello spazio e considera subito uno dei temi a lui più cari, l’interno della stanza, reso in un apparente monologo di colori terrosi. A ben guardare però, al centro del quadro il paralume verde ha acceso un accento nuovo, preannunciando già l’esplosione del colore a cui il pittore arriverà attraversando una breve fase vicina al Pointillisme di Signac (1899). È il frutto di una scomposizione scientifica della visione cromatica presto abbandonata, poiché inadatta all’esclusivo amore alla libertà e al colore puro che in Nature morte à “La danse” (1909) dimostrano di essersi ormai guadagnati uno spazio irrinunciabile. Ad emergere presto, e non solo negli straordinari disegni presenti in mostra, è la seconda protagonista della sua opera: la linea, che sembra risucchiare in sé la volontà di Matisse in modo se possibile più insidioso del fratello colore. Basterà guardare il dipinto al centro della pagina, realizzato nell’inverno del 1925, dove la donna è diventata un manichino e il vortice decorativo, come una pianta carnivora, sembra risucchiare tutto, spezzando i piani compositivi e facendo camminare Matisse lungo il crinale dell’astrazione. L’esito è dal fascino abbagliante, ma il titolo non lascia equivoci: Figure décorative sur fond ornemental. Si apre il periodo delle celebri Odalische (1928), preannunciato da un’opera come La table noire (1919). È una vertigine ornamentale dalla quale molti pittori non sarebbero stati in grado di uscire. Ma Matisse è Matisse e un’opera tra le sue più celebri, La musique (1939), segna una sorta di ritorno all’ordine, in una capacità di sintesi già dimostrata in passato e ora recuperata per portarla all’esito finale e definitivo della sua opera. In un’imprecisione di dare e avere la vita arriva infine in soccorso dell’arte e la vecchiaia di Matisse, limitandone i movimenti, gli suggerisce la via verso la sintesi; le forme che andava “ritagliando” sulla tela passa a ritagliarle veramente sulla carta, realizzando i sui definitivi decoupage. In un’opera come Nu bleu I(1952) si coglie l’approdo: la linea ha fatto pace con il colore, il superfluo è volato via senza traumi e il carico si è fatto leggero. Matisse riesce a toccare il Cielo con un dito senza dover sollevare i piedi da terra ed è pronto per dedicare le ultime energie alla Chiesa di Saint Paul de Vence, l’opera che lui stesso definì «il risultato finale delle mie ricerche precedenti, il risultato di una vita consacrata alla ricerca della verità». E sta qui il grande insegnamento che dobbiamo a Matisse, maestro di sintesi e purezza, ma soprattutto esempio per tutti di una vita spesa, senza risparmio, alla ricerca della verità, una ricerca senza tregua e compromessi, condotta con fatica e l’onestà di non accontentarsi mai, perchè: «solo allora l’opera sembrerà altrettanto feconda, e dotata di quello stesso fremito interiore, di quella stessa bellezza risplendente, che posseggono anche le opere della natura. Ci vuole un grande amore, capace di ispirare e di sostenere quello sforzo continuo verso la verità, quella generosità e al tempo stesso quella rinunzia profonda implicite nella genesi di ogni opera d’arte. Ma l’amore non è forse all’origine di ogni creazione?».

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