Da Londra a Roma 2. Damien Hirst alla Wallace Collection

Damien Hirst, ha sorpreso tutti con una piccola esposizione di quadri, eccezionalmente dipinti da lui e non, come era ormai prassi consolidata, realizzati da uno dei suoi cento assistenti seguendo una sua idea. Per comprendere la scelta di Hirst occorre capire come l’artista sia arrivato fino a questo punto…

 

Se ripartiamo da una mostra londinese (Wallace Collection, fino al 24 gennaio) è perché il protagonista con il quale avevamo chiuso lo scorso anno il nostro Diario londinese (ora su www.gdp.ch), Damien Hirst, ha sorpreso tutti con una piccola esposizione di quadri, eccezionalmente dipinti da lui e non, come era ormai prassi consolidata, realizzati da uno dei suoi cento assistenti seguendo una sua idea. A prima vista la qualità dei dipinti non è sembrata all’altezza del nome, ma Hirst è un maniaco perfezionista che non sarebbe arrivato dove è arrivato senza una rigida autocoscienza del suo lavoro. Qualcosa non tornava… La mente mi si è aperta grazie all’intuizione dell’amico Giovanni Frangi, non a caso un bravissimo pittore: questo lavoro va considerato nel suo complesso, come un’opera concettuale. La mostra alla Wallace va vista, e giudicata, come un’installazione che coinvolge l’intero palazzo; quello che Hirst mette in mostra non sono i singoli quadri ma la mostra stessa, ad andare in scena è il suo ritorno alla pittura, la sua necessità di farlo, non i suoi quadri. Non rendersi conto di questo vuol dire astrarre un dettaglio dalla storia e pretendere di capirlo. Si tratta di un’ingenuità critica. «Qual è l’opera d’arte?» «La mostra stessa» è la risposta. Non è un caso che l’artista inglese Tracey Emin abbia descritto quello di Hirst come «un cammino sperimentale e un atto decisamente coraggioso». Hirst sceglie un titolo No Love lost (Nessun amore rimasto) citando l’omonima canzone dei Joy Division, il cui testo di angoscia e morte è una descrizione poetica e puntuale dello spettacolo messo in scena. Il terribile Damien investe oltre 400 mila franchi per allestire la sua mostra alla Wallace Collection, scelta perché tempio della tradizione pittorica, riservato a pochissimi artisti viventi prima di lui (Lucian Freud, 2004) e casa-museo dove sono raccolti alcuni grandissimi della pittura europea, con i quali vuole mettersi in relazione diretta. Per sottolineare che si tratta di un’installazione, adatta ai suoi quadri delle cornici antiche, o in stile, li appende alle pareti con delle catenelle, davanti ad una seta sontuosa che non trova già in loco, ma che commissiona, per 100 mila franchi, ad un tessitore di Lione, da cui si riforniva anche Maria Antonietta. Le parole di Hirst pubblicate in catalogo, da distillare dal consueto delirio che contengono sempre le sue conversazioni, ci danno poi una chiave di lettura indispensabile. Hirst sente la necessità di un ritorno alla pittura, di riaprire una porta che Rothko aveva chiuso creando uno straordinario spazio di spiritualità, dal quale non s’intravedeva però una strada percorribile. Per questo, negli anni, ha infilato animali morti in strutture pulite come sculture minimaliste, «nelle sculture di Sol le Wit», volendo attraversare il minimalismo, entrarci dentro con la vita e la morte. Poi «è successo qualcosa e sto dipingendo da circa tre anni in questo modo. Mi sono stancato di curare la fabbricazione di tutte le sculture, adesso posso permettermelo: sono tornato ad avere 16 anni, allora non potevo farlo, ora sì, posso riportare un’idea sulla tela, riesco a realizzarla». Ma cosa cerca con queste opere, perché dovremmo accettare l’operazione concettuale alla Wallace e chiudere un occhio sulla qualità non proprio ineccepibile dei dipinti? Perché, ancora una volta, Hirst pone l’accento su un punto centrale senza il quale non ci potrà essere strada per la pittura oggi. Per anni, ammette, ha realizzato dipinti con mezzi meccanici, affidandosi alle macchie di colore (vedi in basso a destra) per evitare di dipingere veramente: «penso di esserne stato spaventato». Ma cosa spaventava Hirst: «Max Beckmann dipingeva le sue tele di nero prima di lavorarci e diceva: “ecco il vuoto”… Ogni cosa che dipingo è qualcosa che metto tra me il vuoto… Sono tantissime le cose che ho buttato sulla tela per metterle tra me e il vuoto di Max Beckmann ed erano cose che mi permettevano di non implicarmi con quello che potrebbe riempire il vuoto… Cercavo un modo meccanico di fare pittura, di creare dipinti realizzati a macchina, nel tentativo di svuotare la responsabilità di essere artista». Con gli Spot painting (vedi a destra) «avrei voluto eliminare le faccende formali con il colore puro, in quei quadri il problema era solo scegliere colori consoni al mio stato d’animo con i quali riempire una griglia formale. Allora l’ho fatto credendo fosse un buon lavoro, oggi dipingo più visceralmente… Uso l’olio e amo i tempi di asciugatura della pittura, amo aspettare che il bianco asciughi prima di dipingerci sopra». Un pittore insomma. Un pittore che, a 44 anni, arrivato, realizzato e osannato più di chiunque altro artista al mondo, riparte da capo, deciso a giocare la vera partita, deciso a fare i conti con quel vuoto, affidando le sue speranze alla pittura.

Requiem & resurrezione

Lo splendido mazzo di rose bianche che esplode sprigionando farfalle nel blu è una delle ultime opere di Hirst, posto a chiusura della mostra di Londra. Il suo carattere definitivo, per ora, emerge chiaro nel titolo: “Requiem”. Fin dal Quattrocento, i quadri di fiori hanno sempre rappresentato la sublime bellezza del creato, incapace di sfuggire alla caducità della vita e destinati a marcire. Qui i fiori sono rappresentati nel momento della loro massima magnificenza ed energia vitale, nell’atto di generare farfalle. Spesso l’artista ha usato nelle sue opere farfalle vive, proprio per il loro senso di caducità: esplosione di colori meravigliosi ma anche corpi d’animali già morti. Hirst sta sempre sul crinale tra morte e splendore, puntando il dito nel costato della vita. A noi scegliere se vederci un superbo memento mori o uno straziante e indimenticabile manifesto di una bellezza che vince la morte.

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