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Un soffio che nulla potrà soffocare. Gaudenzio Ferrari

Mentre si depositano i detriti sempre più vicini di un’Europa precaria scossa dalle bombe,
un volto come questo riemerge dai secoli per puntarci i suoi occhi addosso, reclamando un’attenzione esclusiva sulla soglia della Pasqua. Ecce Homo.

Questo Cristo, scolpito da Gaudenzio Ferrari al principio del Cinquecento, si propone a noi disarmato e potentissimo insieme. Giovanni Testori, che ha scoperto quest’opera al Sacro Monte di Varallo, diceva che Gaudenzio è inconfondibile perché «solo lui sa rappresentare Cristo con questa tenerezza, e insieme con questa freschezza, così che, mentre lo guardi, ti sembra di sentirlo respirare…». Ed è la vita, quel tenace soffio di vita, a farci rimanere incollati a quegli occhi. A respirare non sono solo le dolci labbra socchiuse ma, si direbbe, tutta la pelle, candida e soffusa di un rossore delicato e impalpabile. «Gaudenzio – continua Testori – ha bisogno di sentirsi e muoversi nell’interno e nel pieno della materia. In essa la mano tocca, affonda e a furia di carezze crea un soffio, un palpito, una forma. La scultura, in lui, da stilema plastico diventa trepidante verità, umana e carnale concrezione; da parer, ecco, un calco eseguito direttamente sul corpo dell’uomo a furia di sguardi, di carezze, di pensieri e gesti d’amore». Parole che aderiscono come un guanto a un’opera come questa, che pur è scolpita nel legno di tiglio, e non plasmata in terracotta, come lo stesso Gaudenzio e tutti i plasticatori del Sacro Monte varallino avrebbero fatto di lì a poco.

Il recente restauro della straordinaria bottega bergamasca dei Gritti ci ha restituito un’opera intatta e carica di una storia che l’ha attraversata senza sovrastarla. Questa statua venne spostata dalla Cappella 40 alla Cappella 32, in una delle molteplici riorganizzazioni del percorso del Sacro Monte che comportarono il riutilizzo di statue antiche in nuovi contesti. Ma ciò che ci interessa non è tanto che questo Cristo non si accinga più a salire il Calvario, come in origine, ma la Scala Santa del Pretorio, sono due frangenti della stessa storia. Ciò che sorprende è che i fabbricieri del Sacro Monte, nei decenni successivi la sua esecuzione, abbiano sentito la necessità di smorzare la dolcezza sterminata di questo volto, la sua umanità disarmata ma non inerte. Sebbene le fonti non ci rendano certi di come siano andate le cose nei convulsi anni di spostamenti tra cappelle e le loro riconversioni in nuovi temi, ciò che appare chiaro è che al Cristo, nel corso del Cinquecento, è stato affiancato un terribile Manigoldo, un volto, qui riprodotto, che non potremmo pensare più antitetico a quello di Gesù. Una maschera caricaturale, mutuata dai disegni grotteschi di Leonardo, un vero mostro subumano posto a garanzia del destino di truculenza che spetterà alle carni mortali del Redentore, utile a contrapporre la bellezza della bontà alla bruttezza della malvagità, in un dittico caro al Vinci e alla Maniera a seguire. Ma non bastasse un garante di siffatta spaventevolezza, probabilmente in decenni ancora successivi, si è avvertita la necessità di intervenire direttamente sul volto di Gesù. Quegli occhi e l’incarnato leggero ci appaiono ora solcati da pesanti gocciolature di colore- sangue, dense eruzioni di rubino, concretate con una materia estranea alla delicatezza originale, gocciolature tridimensionali che ne tramano gli incarnati e nascondono i delicati rigoli ematici dipinti da Gaudenzio. Certo, probabilmente in pieno Seicento, il mutamento della sensibilità religiosa è sufficiente a spiegare questa scelta, come anche l’aggiunta di pesanti striature di sangue estese a tutto il corpo. Ma dopo l’affiancamento dello spaventevole Manigoldo, quest’intervento su un’opera di Gaudenzio, considerato il canone cui ogni scultore del Sacro Monte era espressamente tenuto ad adeguarsi, ci fa pensare che la dolcezza sconfinata, la forza della delicatezza che traspaiono da questo volto sembrassero insopportabili, colpevoli di stemperare il dramma del racconto. E, in effetti, se ci soffermiamo più di qualche secondo su questo volto, ci accorgiamo che non bastano quei rivoli di sangue raggrumato e la corona di spine per farci propendere per la vittoria della morte. Quel soffio di vita arriva intatto fino a noi e quest’immagine ci rimane sospesa negli occhi come questo sabato, carico di tutta la violenza della morte ingiusta e dell’ingiustizia della morte, ma attaccato a quel soffio di vita che potrà sospendersi, ma che nulla potrà soffocare.

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