L’allenamento dello sguardo

Questo dipinto dell’americano William Congdon (1912-1998) è un alleato, una sorta di santo protettore della necessità che abbiamo di allenare lo sguardo. In mesi in cui i nostri occhi sono stati piantati più su uno schermo che su una finestra – reale o metaforica che sia – la vera lotta di resistenza è ora difendere, o riconquistare, la nostra capacità di vedere, trattenere e, perché no, magari anche commuoverci dell’infinitamente piccolo, che potrebbe non esserci, ma c’è.
È un quadro, questo, dipinto nella bassa milanese, a sud della città, di fronte a campi arati e innevati, in un marzo freddo di 35 anni fa. È una Nevicata, che ci spinge a guardare con profondità a quello che abbiamo di fronte, per coglierne gli infiniti e impercettibili dettagli, le scalature dei toni nell’evanescenza, ma anche la presenza della materia, che cogliamo reale proprio perché scalfita, ferita forse. Certo, è uno di quei quadri che necessitano una visione diretta per essere colto, ed anche questo è un grido politico, oltre che culturale, sulla necessità fisica di riaprire presto tutti i musei.
Fermando il mouse della mente sull’immagine di questo dipinto, possiamo comunque ben percepire la luce che è capace di riflettere, trattenuta dalla terra obnubilata nella parte inferiore, intrisa nella varietà e nei tormenti del bosco sotteso nella porzione centrale, fino a liberarsi nella purezza iridescente del cielo ampio, senza angustie, della sommità. In questo passaggio dal basso verso l’alto, alleniamo i nostri occhi a cercare la luce sopra di noi, certo, ma, soprattutto, godiamo dell’insegnamento al dettaglio. A guardar bene, noteremo ad esempio che in molti punti Congdon ha lasciato emergere il fondo nero, non coprendolo integralmente, trapuntando il quadro di quelle che mi sono sempre sembrate, non solo la partecipazione personale, ed esistenziale, alla poetica del non-finito, ma la registrazione necessaria delle ammaccature della vita. Del resto, proprio attraversando il corpo centrale del quadro, per rivolgere i nostri occhi al cielo soprastante, possiamo facilmente notare che anche in quello spazio, più si va in alto, più si colgono dei segni.
Non si tratta, infatti, della raffigurazione di un empireo astratto, privo di umanità, ma di un cielo che partecipa alle cicatrici della terra, facendosene carico, assumendole e mutandole in una virata d’azzurro. Perché, come scrisse l’artista nel suo diario, in questo dipinto «L’Altro e l’Altro-oltre-l’altro» è ciò che «prende in mano non solo il quadro, ma te». È un augurio per questo 2021: che il nostro sguardo si soffermi tra le pieghe della realtà, alzando gli occhi fino al cielo, per scoprirlo intento a prenderci in mano.

Davide Dall’Ombra

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Didascalia: W. Congdon, Nevicata 2, 1986, olio su pannello, cm 70×50,
collezione privata. © The William G. Congdon Foundation
www.congdonfoundation.com.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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