L’oro nella ferita

In questo Sabato Santo ci fermiamo consapevoli e arresi di fronte a una ferita che sa di sofferenza e redenzione, se non di speranza. Si tratta di uno dei celebri “sacchi” realizzati negli anni Cinquanta dall’artista umbro Alberto Burri (19151995).
L’autore è sempre stato refrattario ad esplicitare il significato dei “sacchi”, certamente legati alla sua terra – al saio francescano, per intenderci –, realizzati con il tessuto di juta usato per le derrate alimentari, talvolta proprio quelle distribuite dagli Alleati alla fine della Guerra.
E chissà quanto ha contato per lui la loro funzione: contenere cibo, cibo di vita, cibo per il popolo…

La centralità di questo squarcio e l’aggiunta del pigmento rosso costruiscono l’immagine di una profonda ferita, che emerge potente da un contrasto. I lembi tesi del tessuto, ordinati e regolari mentre s’inzuppano di luce, tentano di sopire ogni tensione, chiudendo questa ferita. Ma la presenza ineliminabile di essa dichiara l’incapacità di questi lacerti, sfilacciati e intrisi di rosso, di rimarginarla, foss’anche dopo centinaia di sguardi, perplessi o commossi che siano.

Se quest’opera ci sembra oggi l’immagine più appropriata per la seconda Pasqua di pandemia è perché l’impossibilità di saturare questa ferita, di farla rimarginare – Burri era stato medico di guerra, fatto prigioniero in Texas – è, non solo l’immagine di una sconfitta con cui fare i conti, ma la possibilità di preservare un luogo di transito percorribile, ineliminabile.
Lucio Fontana, con i suoi “tagli”, sarebbe arrivato di lì a poco a raccogliere l’eredità di un’opera come questa, portando le sue Attese alla sintesi formale di un’apertura verso un altro e un altrove che, a bene guardare, connota già l’opera di Burri. Un’opera che preferiamo oggi all’inesorabile pulizia spaziale di Fontana, o all’eredità che ne ha raccolto – caricandone, o precisandone, il senso – Anish Kapoor con la sua Guarigione di San Tommaso (1990).

Sono mesi in cui la vita è inesorabilmente mediata da questo schermo lucido e luminoso, impegnato nella remissione di ogni screzio di materia, di ogni attrito generativo, nell’annullamento delle sofferenze che ci rafforzavano un tempo… Oggi, questa ferita che non si rimargina, con tutto l’impegno ordinativo delle nostre trame e dei nostri orditi, è lo spazio che possiamo concedere alla ricchezza di quello che ci attende. Tanto che, a riempirci di silenzio giunge la scoperta nascosta nella didascalia di quest’opera. Il titolo, come la tecnica, denuncia la presenza, nientemeno che di una foglia d’oro, posta proprio dentro la ferita, visibile al suo margine inferiore, mentre si accende appena sotto il pigmento rosso della nostra sofferenza. Un punto di luce tenace, intento ad aprirci la porta di una speranza.

Davide Dall’Ombra

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Didascalia: Alberto Burri, Sacco e Oro, 1956, sacco di iuta, filo, plastica, acrilico, vinavil, foglia d’oro su cellotex, 52,5 x 39,5 cm ©Fondazione Palazzo Albizzini, Collezione Burri, Città di Castello, Italia; Photo Alessandro Sarteanesi.

 

 

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