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Giovanni Bellini a Natale

Il Natale che racconta questa Presentazione al Tempio, dipinta da Giovanni Bellini alla fine del Quattrocento, è un Natale descritto pizzicando quelle corde delicate della percezione, invisibili ma tenaci, che sottendono ad accadimenti imprevisti, piccoli e straordinari insieme. Appena sotto la superficie di commovente, tenera bellezza, andando poco più a fondo dell’emozione che provoca questo dipinto, si scoprirà che quello che sta avvenendo è ben più di un’usata situazione d’intimo affetto. La storia inizia da destra, l’uomo quasi perfettamente di profilo è Simeone, il vero motore immobile della scena; le vesti sono quelle del sacerdote, l’austera materia e sembianza di cui è dipinto sono quelle che è giusto tributare al Vecchio Testamento: spetta a lui il compito di portarsi dietro, insieme alla propria, millenni d’attesa del suo popolo per quel Bambino. A lui il compito di scoccare, da quelle labbra socchiuse, la frase che attraversa il dipinto, le parole che non lasciano spazio all’equivoco: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori».

Già, di molti cuori. Giuseppe, lì accanto, lo guarda con una consapevolezza che non potremmo dire rassegnata, tanto meno incredula: bello e maturo da far girare la testa a tutte le giovani di Nazaret, lo guarda da un’altra generazione, dalla consapevolezza di chi, in così pochi giorni, ha già dovuto capire tutto, abbandonarsi tutto, per ricevere, in cambio, la ricompensa di pace che sembra trasudargli dalla pelle. È un passaggio di testimone tra due generazioni che racchiude, in sé, tutta la vertigine di quell’anno zero che ha cambiato il Testamento. E il mondo. A sinistra, grazie ad un bellissimo, ampio manto che incornicia la scena, ad accogliere, ad assorbire in sé, ad intridersi delle parole di Simeone è lei, Maria: bella come solo Giovanni Bellini seppe fare le proprie Madonne, bella e dolce come dev’essere la madre della Bontà, la madre della Bellezza, la madre del compimento tutto… Ma Simeone non aveva finito. La frase che sta passando davanti agli occhi certi di Giuseppe, per incagliarsi nel grembo di Maria, non finiva così: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori». Pausa. «E anche a te una spada trafiggerà l’anima». Giuseppe incassa. Lei, madre, abbraccia. I primi due pensieri da svelare erano i loro. Ma come può Maria rimanere serena, imperturbabile mentre il profeta le sputa in faccia le terribili parole di un destino che… che in cuor suo conosceva bene, d’accordo, ma insomma…

La risposta la stringe tra le mani, anzi la porge tra le mani, quasi a farsi scudo di fronte a quelle terribili parole: se può riceverle, abbracciarle appunto, è solo perchè le arrivano dopo aver traversato il figlio, suo figlio, il Figlio dell’uomo. Ma sarà poi vero che era stato lui ad attutire il colpo? La faccia, in effetti, sembra essersi girata di scatto come spinta dalle parole di Simeone, ma in fondo non era forse lui la spada di sua madre? Non era forse destinato a diventare, contemporaneamente, il suo compimento, la sua unica ragione di vita, ma anche il suo maggior dolore? «Segno di contraddizione…». Aveva già iniziato. E lei lo sapeva Ma per ora quel bambino era soprattutto carne della sua carne: la pelle di latte che riempie di candore la scena non è forse identica alla sua? A dirla tutta, sarà la suggestione, ma non potremmo dire che non abbia preso qualcosa anche dal babbo, quasi che Dio, a quel padre putativo, nella sua infinita tenerezza, abbia regalato una certa somiglianza con il figlio, per carità, per ricompensa del suo sì… Al centro, quel bambino che non sta ancora in piedi da solo, si chiama Gesù e in volto ha due meravigliosi occhi celesti che guardano lontano. Potremmo scommettere che sia stato proprio da quelle pupille che Simeone l’ha riconosciuto e che sia stato guardandolo negli occhi, appena prima di farglieli girare con la sua ferale profezia, che ha esclamato: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele». Gli occhi negli occhi: la luce per illuminare le genti era già in quello sguardo indimenticabile. Era tutta in quelle pupille.

Forse anche Simeone non avrà potuto far a meno di pensare al passo che aveva letto migliaia di volte, la descrizione più struggente dell’amore di Dio per l’uomo: «Egli lo trovò in terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del Suo occhio». Si era compiuta tutta la sua storia, la storia del suo popolo. Ed ora eccola lì, la pupilla del Suo occhio, colei con la quale dividiamo un destino comune: noi, trattati da Dio allo stesso modo. È guardando quegli occhi che scopriremo il prosieguo della storia: a quelle pupille non saranno risparmiate lacrime, non sarà celata la vista delle fatiche, delle abiezioni umane, non sarà risparmiata la commozione per l’uomo, la tristezza per la morte di un amico, a quelle pupille non sarà nascosto nulla, e, alla fine, saranno prosciugate sulla croce… eppure. Eppure è una storia che Lui dice di aver vinto, non scansato, vinto. Ed è per questo che è una storia che ci interessa. In questa faccia di latte dagli occhi celesti c’è tutta la straordinaria contraddizione del Natale, la promessa che non ci sono dolori troppo grandi per quegli occhi da bambino e che Dio si prenderà cura di noi lasciandoci attraversare le circostanze più contraddittorie, non risparmiandoci niente, ma non smettendo di illuminarle con gli indimenticabili occhi della Sua dolce presenza.

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L’articolo prevedeva un inedito attacco di ambientazione, nato dalla visione del dipinto e dallo stato d’animo del momento. Eccolo:

Perchè capita, qualche volta, di entrare in un pomeriggio freddissimo d’inverno, stringersi nel bavero del cappotto e sentire l’aria fredda che t’invade la faccia, suscitandoti piacere anziché fastidio. Allora guardi in silenzio l’orizzonte nitido e cristallino tra i rami nudi che son memoria di vita e quel freddo, che nel resto dei giorni non vorresti che sfuggire, ti trova inaspettatamente amico, tanto da permettergli di corroborarti, richiamando a sé la voglia di vita, tenerezza e malinconia che ti porti dentro. Da sempre. Perchè capita di stringere tra le mani un cespo di foglie odorose, di spremerlo intorno al naso per attorniarci le narici e respirare profondamente, lasciando che la natura delle cose t’inebri con la sua forza, in una sensazione di strana vitalità e partecipazione che, a ripensarci, ritorna vivida come appena accaduta, colmandoti del profumo fortissimo di basilico, di rosmarino o di limone che sia. Non si tratta di gesti premeditati, non si tratta di atti necessari, non sentiresti la necessità di raccontarli a nessuno, sono tuoi, personali incontri con il reale, che si presenta a te d’improvviso, chiedendoti una piccola e imprevista dose di abbandono, una piccola cedevolezza. Ma se la realtà ci sorprende in modo così indelebile, con così piccoli profumi e percezioni, invisibili agli occhi, eppur destinati a permanere come esperienze vivide e amate, capaci persino di evocar nostalgie, cosa si potrà dire dello sguardo improvviso di una persona cara? E Cosa, della dirompente invadenza dello sguardo della persona amata?

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