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Ernesto Treccani di vetro

“Vorrei che un giorno si potesse dire del mio lavoro: era in un tempo che andava verso la felicità malgrado le nubi e i flagelli. Di questo aveva coscienza, eppure ha dipinto un giardino splendente”. In questa frase c’è tutta la grandezza e il limite dell’opera di Treccani.

Fiori e colori, alternativa ai flagelli? Le vetrate di Ernesto Treccani nell’Aula Magna dell’USI.

«Vorrei che un giorno si potesse dire del mio lavoro: era in un tempo che andava verso la felicità malgrado le nubi e i flagelli. Di questo aveva coscienza, eppure ha dipinto un giardino splendente». In questa frase c’è tutta la grandezza e il limite dell’opera di Treccani. La grandezza di aver centrato il cuore del problema nella pittura della realtà: la possibilità di esprimere il proprio inesauribile desiderio di felicità. Ma anche il limite di chi, cercando la via a quella felicità, fugge da nubi e flagelli, tentando di tener lontana dalla pittura la coscienza della drammaticità del reale.

Insomma dal realismo alla fuga dalla realtà. È una resa immediatamente visibile nelle sue opere, indipendente dai soggetti affrontati, siano essi “impegnati” o meno, perché nei Fiori o nelle Siepi di Treccani non troviamo quel dramma della vita e della morte che, al contrario, ci fanno sembrare amabili e insopportabili i Fiori o i Paesaggi di Ennio Morlotti. È da questa fuga che si generano le cadute di stile che segnano la sua carriera: l’ideologia senza poesia di alcuni quadri degli anni Settanta e i lavori seriali degli anni Ottanta e Novanta, frutto delle troppe concessioni al “vendibile”. Due limiti che ritroviamo anche nella carriera di un grande come Renato Guttuso, il quale, non a caso, aveva teorizzato di voler cercare la verità «nel mare della fantasia e dell’immaginazione», ma il quale poteva contare su un’abilità straordinaria e fulminante, sempre capace di sfociare in un capolavoro.

Tener presente questi presupposti, credo possa aiutare a comprendere ciò che si troverà davanti il visitatore che, sceso nell’Aula Magna dell’Università di Lugano, potrà ammirare le sei coppie di vetrate, eseguite un anno fa da Treccani, su commissione dell’italiano Gestore del Mercato Elettrico e dedicate al tema dell’Energia. Un soggetto arduo da restituire in immagine, per il quale il pittore decide di impiegare il mezzo della vetrata, al fine di poter contare sulla matericità, sulle trasparenze, sulla luce, allo stato puro o filtrata. Per realizzarle, l’ottantacinquenne Treccani non si è limitato ad eseguire un bozzetto preparatorio, da far trasporre ad altri in vetrata, ha passato mesi in laboratorio per comporla personalmente. Nella ricerca dell’artista di un suo “giardino splendente” l’arrivo al vetro colorato, che stava sperimentando da qualche anno, ci sembra comprensibilissimo, lineare, e la leggerezza compositiva dell’immagine prodotta è indubbia.

Ma la vita? Dove batte il cuore della vita, condizione necessaria per superare la soglia del buon artigianato? La vita è tenuta fuori dalla porta e lo si vede dal fatto che si è perso l’oggetto raffigurato, visto che, a parte qualche differenza di colore, la vetrata dedicata all’Energia nucleare è formalmente identica a quella sul tema dell’Acqua. Non sarebbe rispettoso nei suoi confronti, giustificare la mediocrità delle vetrate, troppo simile a quelle brutte bomboniere-posacenere che speri si rompano al più presto, con l’età del pittore. Anche perché, sfogliando il bel catalogo, l’immagine di un Treccani riverso a distribuire i pezzi colorati che, fondendosi, avrebbero dato vita alle opere, non può non farci venire in mente le struggenti fotografie che ritraggono un vecchio Matisse, ormai sulla sedia a rotelle, costretto a disegnare con un carboncino in punta di bastone, i cartoni per le vetrate di Vence. Credo piuttosto che la fuga dalla vita sia una resa che alla lunga non paga mai, tanto meno in pittura. Queste vetrate nascono vecchie e non sono certo un punto a cui i ragazzi dell’Università che le ospita, chiamati a diventare comunicatori, possano guardare. Credo altresì fermamente nell’utilità di importare opere d’arte estere di grande valore, utili alla stessa valorizzazione del patrimonio locale e a scongiurare il provincialismo, figlio della perdita di valori di riferimento. Per cui spero ci si riprovi. Anche perché la sede espositiva è sicuramente un luogo suggestivo e adatto allo scopo, a patto che si fugga un altro equivoco sotteso alle dichiarazioni e nei comunicati stampa di questa mostra. L’Aula Magna progettata da Luigi Snozzi potrà anche non piacere per il suo stile minimal-hi-tech e la profusione spregiudicata del cemento, ma questa è la cifra stilistica di Snozzi e l’atmosfera particolarissima creata non guadagna nulla se contraddetta nel suo stesso esistere, dall’accensione di luci colorate, fossero anche d’autore.

Dall’arte per amore una nuova poetica

Che nostalgia. Leggendo le parole del pittore Ernesto Treccani, classe 1920, ci viene una grande nostalgia. Rimpianto di tempi andati, di tempi che non abbiamo vissuto, ma che ci sembra quasi di poter toccare. Treccani non aveva vent’anni quando si trovò ad essere il direttore della rivista Corrente (1938-1940), molto più che un semplice giornale antifascista: il luogo in cui si stavano formando alcune delle grandi menti della letteratura e cultura italiana del dopoguerra. Sotto la cenere del fascismo s’incontravano diverse generazioni accomunate dal talento e dalla voglia di libertà. La pittura giocava un ruolo decisivo e le diverse concezioni di Realismo, opposto ad ogni forma di classicismo degli anni appena trascorsi, venivano espresse in manifesti teorici e quadri. Le interpretazioni di Guttuso, Morlotti, Cassinari o Testori non erano semplici variazioni sul tema, ma indicavano differenze e vicinanze destinate a segnare la storia della pittura. Treccani era lì, al centro di tutto questo, e non di certo per stare a guardare, anzi a lui è riconosciuto un ruolo decisivo di “collante” tra personalità diversissime tra loro, nonché di animatore in dibattiti critici fondamentali. Come gli altri, anche lui cercò presto una propria strada per tradurre in pittura ciò che i suoi scritti restituivano con chiarezza e determinazione. Per tutta la vita l’attività pittorica e quella teorica andarono di pari passo, integrandosi e spiegandosi a vicenda. Alla fine della Guerra, seguirono vent’anni di inesausta sperimentazione, raccontata nel suo diario, Arte per amore (1966), documento ricchissimo, che rende trasparente la sua opera, descrivendocene genesi, intenti e tentativi. È con questa lente privilegiata che possiamo leggere la sua “svolta” alla fine degli anni Cinquanta, al termine di anni in cui gli ex ragazzi di Corrente trasformarono il frutto clandestino di una rivolta contro il fascismo nell’arena manifesta delle grandi imprese della pittura italiana. È allora che il realismo è costretto a cercare nuove forme per esprimersi, in una società sempre più complessa, e Treccani definisce la sua strada personale, verso un “poetico sentimento del reale”.

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