L’ultimo Michelangelo al Castello Sforzesco

Intorno al 1554 Michelangelo compone una delle sue rime più celebri: Giunto è già ’l corso della vita mia. Superati i 77 anni, l’artista vede vicina la morte e, ad un passo dal Giudice, sente che nessuna delle conquiste umane regge di fronte al drammatico incontro che lo attende. Ripensa a quanto ha fatto in sessant’anni di lavoro senza sosta, alla fama terrena raggiunta, e conclude, amareggiato, che il proprio straordinario ingegno, “l’affettüosa fantasia”, non solo non gli è stato d’aiuto, ma è responsabile di una menzogna che lo ha portato a far dell’arte il proprio “idol e monarca”. L’artista che ha regalato all’umanità le più celebri immagini dell’incontro tra l’uomo eDio, aiutando milioni di fedeli, prima che ad arredar casa, ad immedesimarsi con Cristo, giunto al momento dell’ incontro finale, sembra negare per sé il valore conoscitivo della propria opera, tanto da concludere: «Né pinger né scolpir fie più che quieti l’anima, [ora ri]volta a quell’amor divino c’aperse, a prender noi, ’n croce le braccia». Sessant’anni di creazione artistica non lo hanno portato alla pace che prova ora tra le braccia di Cristo in croce.

UNA SCHIENA SPEZZATA. L’artista sembra dover scegliere tra la propria arte, generata dal desiderio di colmare l’insoddisfazione, ma impotente di fronte ad essa, e la vera pace che nasce dal rapporto conCristo. Se ci fermassimo a questa poesia, se Michelangelo fosse morto in quel 1554, in preda a questo terribile dualismo, saremmo costretti a pensare: «Meglio per noi che abbia passato la vita ad inseguire falsi idoli, se il risultato sono i suoi straordinari capolavori». Se avesse rivolto prima il suo desiderio alla Misericordia di Cristo, trovandovi pace, avremmo dovuto rinunciare al David, alla Pietà in San Pietro, alla Volta e al Giudizio Universale della Sistina… Fortunatamente a Michelangelo fu dato il tempo per dimostrare, innanzitutto a se stesso, che le cose non stavano così e che non lo erano mai state. Malgrado una schiena spezzata dalle imprese di una vita, molti acciacchi e i calcoli renali, sorella morte non aveva poi così fretta e all’incontro mancavano ancora dieci anni tondi. Dieci anni di nuove opere straordinarie, dieci anni in cui sperimentare che era possibile una totale unità tra la propria espressione artistica e un’anima rivolta a Lui.

Alle parole non seguirono i fatti e Michelangelo capì subito che, per stare di fronte a Dio, disponeva di un solo mezzo, lo stesso di sempre: continuare a creare, fino alla fine. Certo qualcosa cambiò, perché la posta in gioco – non potendo sapere quanti sarebbero stati gli anni a disposizione – richiese decisioni drastiche, facilitate da una stanchezza fisica crescente, seppur bilanciata da un’inesauribile vitalità creativa. Alla metà del secolo, il settantacinquenne autore delGiudizio universale mette da parte la pittura, riducendo la propria attività pubblica a qualche commissione d’architettura e alla supervisione della fabbrica di San Pietro, per concedere l’esclusiva al committente più esigente e inappagabile: se stesso.

L’ULTIMA PIETÀ. Sono anni di lavoro inesausto, un lavoro intimo, nel quale, libero di non confondere il successo con la soddisfazione,Michelangelo dà fondo ai mezzi che sente più congeniali al tormento di un’indagine privata: la scultura, la scrittura e il disegno. Tre attività che in questi anni s’intrecciano in modo definitivo intorno ad un solo soggetto: la Passione diCristo e il rapporto che s’instaura prima, durante e dopo di essa, tra Gesù e sua madreMaria. La mostra L’ultimo Michelangelo. Disegni e rime attorno alla Pietà Rondanini, ideata e curata da Alessandro Rovetta per il Castello Sforzesco di Milano espone, fino al 19 giugno, alcune delle più straordinarie opere di questi ultimi anni dell’artista. Disegni e manoscritti originali, tra i quali quello della Rima da cui siamo partiti, che accompagnarono Michelangelo alla vera fine, a quel 18 febbraio 1564, in cui la morte lo sorprende, sfilandogli dalle mani mazza e scalpello, mentre era ancora intento a staccar marmo dalla Pietà Rondanini, l’opera ultima, definitiva, intorno alla quale, idealmente e fisicamente, è allestita la mostra.

Il visitatore è chiamato ad avvicinarsi al cuore della nostra storia con una sorta di prequel, l’antecedente necessario. Negli anni Quaranta del Cinquecento, Michelangelo intesse una profonda amicizia con la marchesa Vittoria Colonna, che segna profondamente l’artista, giocando un ruolo decisivo nella sua fede e nella sua opera. In mostra viene indagata la straordinaria fortuna presso pittori, disegnatori e incisori coevi dei due disegni, una Crocifissione e una Pietà, donati alla Colonna quali sigillo figurativo delle meditazioni comuni. Proprio dallo sconforto per la morte della Marchesa (1547) nasce la tormentata elaborazione della Pietà ora al Museo del Duomo di Firenze che, pensata per la propria tomba, e abbandonata a metà degli anni Cinquanta, ci accompagna al principio dell’ultimo decennio michelangiolesco, cuore dell’esposizione. In mostra, eccezionalmente prestato dalla Casa Buonarroti, un piccolo crocifisso ligneo realizzato per il nipote, ma, soprattutto, alcuni straordinari disegni, provenienti dai più grandi musei d’Europa, tra i quali quattro delle sei drammatiche e commoventi Crocifissioni, realizzate negli ultimi anni di vita (1561-1564). Una raccolta di testimonianze mozzafiato, che ci raccontano dell’incontro tra l’uomo Michelangelo e l’uomo Cristo.

LA TELECAMERA DEL CUORE. Giunti di fronte alla tormentata esecuzione di queste Crocifissioni schierate ai piedi della Rondanini, ci si rende conto che l’irripetibile esperienza a cui siamo chiamati è quella di poter seguire, segno dopo segno, i minuti, i secondi di quell’incontro, di rivedere i frame di un corpo a corpo, i piani sequenza di un Michelangelo che, per gettarsi tra quelle braccia che Cristo «aperse, a prender noi»,ha bisogno di conoscerlo palmo a palmo, di indagarne le ossa, i tendini, di figurarsi le posizioni del capo, l’istante esatto del trapasso e la reazione dei muscoli tesi all’estremo cedimento. Si ha timore a parlarne, perché la testimonianza di questo rapporto amoroso con Cristo è calligrafica, ancora pulsante sul foglio. L’immagine, complice i tantissimi ripensamenti, tutti visibili, e la linea tremante che descrive le masse, sembra ancora in movimento, si riplasma di fronte a noi. Non si tratta di una semplice descrizione: sul foglio è rimasto impresso lo svolgimento, sono “fogli-Sindone”.È come se, dopo le straordinarie descrizioni che ce ne hanno fatto cogliere la portata, trovassimo finalmente un’immagine di quel giorno di Giovanni e Andrea davanti al Battista; un’immagine all’altezza dell’accaduto – e ognun vede quanto ce ne sarebbe bisogno… Ma è molto di più: è come se Andrea avesse avuto con sé la telecamera e fosse stato in grado di filmarsi difronte a Cristo e poi a casa, difronte a sua moglie. Una telecamera capace, per giunta, di registrare anche il proprio cuore che si va appagando, di fronte alla totale corrispondenza di quelle parole.

Fa pensare che la sincerità del rapporto tra Michelangelo e Cristo chiami in causa Maria, lei che è l’esempio per tutti di un rapporto possibile con Lui. Impressiona che nel momento di massima immedesimazione con il fatto, Michelangelo non senta più il bisogno  di dare il proprio volto a Nicodemo per reggere in prima persona il corpo di Cristo, come avveniva nella Pietà fiorentina. Ora può affidarsi totalmente e, dai piedi della Croce, chiama Maria a farsi carico di quest’incontro. Un coinvolgimento della Vergine che avviene in modo naturale, quasi inevitabile, come naturale è il passaggio tra questi disegni e la Pietà Rondanini, legati da un simile lavorio dei volumi e delle superfici.

La Pietà Rondanini è un’opera in bilico: tra il finito e il non finito, tra il peso della materia e la levità della vita. Non siamo in grado nemmeno di capire s sia Maria che sostiene Gesù, come parrebbe logico, o Gesù, novello Enea, a sostenere sulle spalle il genitore, per salvarlo da un mondo in fiamme. Il punto più  certo, definito, sembrerebbe il braccio sulla sinistra, ma su di lui non possiamo fare affidamento, perchè appartiene ad un’iniziale ipotesi compositiva, poi scartata dallo scultore.

Abbandonata la prima versione, in cui Maria reggeva Cristo un po’ da lontano, i corpi erano distanti e i ruoli definiti, Michelangelo ritaglia la testa di Cristo nella spalla della Madonna, avvicinando, anzi fondendo i due corpi e facendo tornare Gesù carne della sua carne. E’ come se Mara tentasse di riportare in grembo quello che resta del suo bambino. E’ come se, per un istante interminabile, le fosse concessa la grazia di ri-custodire il proprio figlio, riprendendolo dentro di sé. La mente va di schianto allo strazio di un lamento gaddiano, immaginato dall’Ingegnere per il corpo di un povero ragazzo morto sul treno, nel tentativo di fuggire il controllore di un biglietto verso casa, che non aveva i soldi per comprare: “Verde Lombardia! Dove di già è scesa la bruma, e le desolate nevi! La cucchiara vi si dimanda cazzuola, e il mattone quadrello. Il pane di Como non è da tutti; bisogna girare, andare! Costruir le chiese ai Dandolo, ai Sermoneta le case. Gli impiccati hanno avuto una tomba; ma i morti de fame dove andranno a sbattere? Il grembo della mamma non può riprenderli indietro”.

O forse sì. Da questo blocco di marmo, scolpito fino agli ultimi giorni concessi, Michelangelo non teme di tirar fuori la debolezza della vita, l’instabilità della condizione terrena, il miracolo quotidiano della maternità che diventa figliolanza e quello del sostenere che diventa sostenersi. Maria, come sempre, segna la strada, dimostrandoci che nulla è impossibile a Dio: anche che il grembo di una mamma si riprenda indietro il figlio. Insieme, quella morte atroce e il dolore di una madre costretta a sopravvivere al proprio figlio, sembrano ormai spiccare il volo della Risurrezione.

E’ così che l’artista, continuando nel suo lavoro, fonde vita attiva e vita contemplativa, svelando, innanzitutto a se stesso, la verità dell’arte e l’unità dell’esistenza.

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