Sul ring con Testori. Eroi tra materia e colore

È il 1958, Giovanni Testori dà alle stampe il suo secondo libro: con Il ponte della Ghisolfa ha inizio la collana de “I segreti di Milano”, l’epopea narrativa dello scrittore di Novate Milanese che, con i suoi racconti e drammi, dà voce all’umanità delle periferie milanesi, ai suoi abitanti, ai loro amori, alla loro violenza e tenerezza. Nascono così i personaggi che intrecciano le proprie esistenze nei racconti del primo volume, che ricompaiono nella seconda raccolta, La Gilda del Mac Mahon (1959) e ritornano nel romanzo che chiude l’epopea, Il fabbricone (1961). Sono eroi loro malgrado, che lottano per una vita meno dura, affrancata dalla miseria e dalla fatica, spesso senza farsi scrupoli, quasi sempre senza riuscirci, mai senza che l’eventuale riuscita sia priva di molte ombre, se non macchie, delittuose o immorali che siano. Si tratta di dinamiche in cui lo sport gioca il ruolo decisivo del mezzo di riscatto: Il dio di Roserio, romanzo d’esordio per Testori, è interamente dedicato alla storia di Dante Pessina, aspirante ciclista professionista pronto a tutto per arrivare. Con Il ponte della Ghisolfa è il turno della boxe, sport protagonista della vicenda che ruota intorno a Duilio Morini, detto il Ras «non solo dei ring, ma anche dei dancing e delle sale da ballo», e a Cornelio Binda il suo giovane pupillo che, nell’incontro decisivo con il Ras, non accetta di lasciarlo vincere come lui aveva chiesto. Storie vere o verosimili, apprese sul campo, girando tra la gente, peregrinando tra le palestre milanesi, assistendo agli incontri al Cinema Teatro Principe di viale Bligny, in prima fila, o comunque abbastanza vicino da tornare a casa con la camicia macchiata di sangue.

Rocco e i suoi fratelli

Un Testori borghese, figlio di un piccolo industriale che non gli aveva fatto mancare una certa agiatezza, è fatalmente attratto dalla vitalità e violenza popolare, nonché, naturalmente, trascinato dalla fascinazione erotica provata per questi giovani nel pieno della loro potenza fisica. Il risultato sono alcune delle pagine più importanti del nostro Novecento letterario, tanto che la verità dei racconti testoriani non sfugge agli sceneggiatori di Rocco e i suoi fratelli (1960), per il quale Luchino Visconti pesca a piene mani in tre racconti del Ponte della Ghisolfa. Ad accompagnare Visconti durante le riprese è lo stesso Testori, ormai guida esperta tra la palestra di Via Bellezza e il Principe: i ring per Rocco e Simone Parondi, immigrati lucani. Occorre partire da questo antecedente letterario, o almeno tenerne conto, per comprendere l’attenzione riservata dal Testori pittore per i Pugili, soggetto centrale di una trentina di opere, tra le sue più significative e concentrate tra il 1969 e il 1972, anni in cui torna a più riprese sul tema affrontato con la scrittura oltre dieci anni prima. Non si tratta di un ciclo unitario ma di un’insistenza sul tema che accoglie in sé uno dei momenti più fertili e felici della pittura testoriana, fatta di continue sperimentazioni formali e materiche, da ricostruire attraverso i dipinti e le opere grafiche giunte fino a noi, grazie alla testimonianza fotografica, ma anche attraverso appunti manoscritti di Testori, che dà vita a più riprese a un inventario delle proprie opere pittoriche, comprensivo di titolo, data, misure e note. È da questi inventari che si scopre come alcuni dei Pugili giunti fino a noi siano stati “completamente ridipinti” dall’autore, probabilmente aggiungendo spessi strati di olio e dando sempre più spazio al dominio del bianco negli sfondi, che segna una direzione ricorrente per la sua produzione, perseguita anche in anni successivi.

Dalla parola al colore

È così che il Pugile (I) si affaccia sulla scena uscendo da un fondale infuocato di rosso mentre una cortina blu, solcata quasi interamente da un fascio di luce, incornicia il Pugile seduto (II). Sono gli unici dipinti nell’inventario datati 1969 e condividono il formato con il Pugile(III), del 1970, per alcuni versi ancora analogo ai primi due ma, di fatto, da considerarsi un’opera di cerniera tra questi e il nucleo centrale dei Pugili, eseguiti nei mesi successivi. Il modo con cui si propone il primo Pugile fa tornare alla mente proprio il Binda e non solo perché i calzoncini sono «viola […], il colore dei campioni e delle primedonne», ma perché, nella sua proporzionata muscolatura lumeggiata di blu, sembra nascondere la timidezza del neofita che non ha ancora sporcato i guantoni di sudore e di sangue. Il destino di rossa e tragica passione che gli monta dietro non lo ha ancora travolto. Sarà la suggestione, ma si direbbe che man mano che Testori si fa strada nella rappresentazione dei suoi pugili, essi si facciano loro stessi coraggio: mentre le ombre colorate si fanno più libere e vibranti, il fondo diventa più eterogeneo, la luce proviene chiaramente da una direzione e la pennellata comincia ad agitarsi al di sopra della superficie. Il Pugile (II) sembra essere più padrone del suo spazio, più a suo agio, ormai consapevole. E l’azione prende vita con il Pugile (III), anzi si può dire che sia lui a costituire il gong che dà inizio al combattimento: è ancora preso dalla preoccupazione di proporsi-imporsi dei primi due, ma accenna già una posizione di guardia. È qui che comincia a farsi strada il bianco destinato a dominare i dipinti successivi, sebbene solcato da ombre caotiche che disegnano uno sfondo non più indifferente, che rende questo dipinto ormai lontano dall’impressione iconica del primo Pugile, a un passo dalla lotta vissuta, o meglio, subita dai Pugili a seguire.

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